Sensibilizzare un familiare alla necessità di cura psichiatrica. Che fare?
Gentile Nicolò,
la ringrazio per aver posto la questione in quanto mi da modo di affrontare un tema aimè alquanto d’attualità nel campo del disagio psichico e dello stigma alla sofferenza mentale.
Con ordine, inizierei dal dire che è effettivamente molto difficile poter esprimere un parere sensato sul tipo di sofferenza psichica di cui sembra afflitto suo fratello, ciò in quanto i dati riportati indicano comportamenti e attitudini di chiara sofferenza ma molto generici e comuni a molte condizioni psicopatologiche, quali per esempio: i gravi disturbi di personalità e la ampia famiglia delle psicosi, senza contare che una non esclude l’altra.
Quindi una parola sull’atteggiamento dei vostri genitori.
Mi sono occupato in passato di stigma verso la malattia mentale e mi sono sempre più convinto che la forma di stigmatizzazione e di discriminazione più dolorosa e gravemente impattante sulla vita di un soggetto affetto da disagio sia la forma intra-familiare, ovvero perpetrata (più o meno volontariamente) dagli stessi membri della famiglia, più spesso i genitori. Il far finta di nulla, il minimizzare e l “accettare passivamente” rappresentano forme di stigmatizzazione molto gravi in quanto minano la prognosi del soggetto molto più che le “classiche” forme di discriminazione provenienti dall’esterno. Un familiare che non dice nulla e assiste passivamente cementifica nel soggetto l’idea/ fantasia che sia talmente grave la sua condizione che nemmeno in famiglia se ne possa parlare o si possa anche solo pensare di reagire e fare qualcosa coinvolgendolo.
Cosa fare?
Fondamentale è sempre e comunque il ruolo del contesto familiare. Il raggiungimento di una alleanza con la famiglia è nella maggior parte dei casi imprescindibile.
Se la situazione lo permette si può, con l’aiuto dei Servizi Psichiatrici, pubblici o privati che siano, pensare di prendere in carico tutto il nucleo familiare e con il tempo e una intensa e costante opera di affiancamento, persuasione, psicoeducazione guadagnare la fiducia necessaria (per esempio attraverso gruppi per familiari, colloqui o vere e proprie psicoterapie) per fare si che i genitori e la famiglia si fidino sempre più e si alleino ai sanitari, rendendo possibile l’avvio di una azione di presa in carico e cura del soggetto malato.
Purtroppo in alcuni casi non ci si trova ad operare nella condizione ideale e le alleanze sono temporanee o parziali, i comportamenti di apertura ambivalenti, o non ci sono proprio motivo per cui la solitudine del paziente fa il pari alla condizione del Servizio o del sanitario chiamato a intervenire.
In casi estremi la famiglia stessa, un parente o una figura sanitaria coinvolta (un medico di base che conosce la situazione, lo psichiatra) possono fare ricorso a uno strumento quale l’ASO o Accertamento Sanitario Obbligatorio che prevede che un soggetto gravemente sospettato di essere portatore di una condizione psicopatologica che gli impedisce di essere consapevole di sè stesso, possa essere coattivamente condotto in ospedale e visitato (questo aspetto dell’accertamento lo differenzia dal TSO che invece prevede il ricovero) da uno psichiatra. E’ un dispositivo che si riserva proprio a chi si rifiuta di essere visitato per esempio rinchiudendosi in casa ed evitando ogni forma di dialogo e confronto.
Cosa consiglio?
Nel punto nel quale mi pare vi troviate credo che qualsiasi azione e iniziativa che non sia lo stare passivamente fermi ad aspettare (lo scompenso di suo fratello?) possa essere utile. Dovete smuovere le acque anche se questo produrrà una certa resistenza, non solo in suo fratello ma soprattutto in famiglia.
Cordiali saluti
Federico Baranzini
Mille grazie Dottore!!! Apprezzo infinitamente il tempo che si è preso per darmi una risposta così completa, esaustiva e profonda. Ora tocca mettersi al lavoro. Grazie