Categoria: Casi Clinici

Un caso clinico di Depressione Post-Partum

Ho paura di fare del male a mia figlia

La storia di Sara e della sua Depressione Post-Partum

Sara è una neomamma di 35 anni, con una figlia di sei settimane, si rivolge ad uno psicologo perché sperimenta i sintomi della depressione post partum. Il suo malessere è iniziato subito dopo il parto. Sara ha partorito con cesareo di emergenza e si sente in colpa per non essere riuscita a dare alla luce sua figlia naturalmente. Inoltre, non riesce ad allattare a causa di un problema di salute e si sente ancora più inadeguata come madre. La presenza costante dei suoi genitori per aiutarla con la bambina la fa sentire intrappolata e inadeguata. Sara non riesce ad esprimere il suo dissenso alla presenza dei genitori per non ferirli e inizia a sentirsi sola e isolata. Inizia ad avere pensieri ricorrenti di non essere una buona madre e di non riuscire a prendersi cura della figlia. Questi pensieri la fanno sentire ancora più depressa e isolata. Sara cerca aiuto per superare la depressione post partum e riacquistare fiducia nelle sue capacità di madre.

Sara ha iniziato una terapia psicologica integrata con farmaci antidepressivi sotto la mia supervisione . Durante le prime sessioni, ha avuto la possibilità di esprimere le sue preoccupazioni e le sue paure riguardo alla sua esperienza post-partum. Insieme abbiamo imparato a riconoscere e affrontare i suoi pensieri negativi riguardanti la sua capacità di essere una buona madre.

Abbiamo lavorato per individuare le cause della sua depressione post-partum e per trovare nuovi modi di gestire le sue emozioni e di affrontare le sfide quotidiane.

L’integrazione della terapia psicologica con farmaci antidepressivi ha permesso di ridurre i sintomi di depressione di Sara, migliorando il suo umore e la sua capacità di prendersi cura della figlia. Con il passare del tempo, Sara ha iniziato ad avere più fiducia nelle sue capacità di madre e ad apprezzare il suo ruolo nella vita della figlia. Ha imparato a chiedere aiuto e supporto ai suoi genitori senza sentirsi in colpa o intrappolata.

Nei mesi ha iniziato ad avere più energia e motivazione per svolgere le sue attività quotidiane, come prendersi cura della casa e della bambina e ha iniziato a partecipare ad attività sociali e ricreative, ricominciando a coltivare le sue passioni.

Grazie all’aiuto psicologico e farmacologico integrato, Sara è riuscita a superare la sua depressione post-partum e a recuperare la sua autostima. Ha imparato a gestire meglio le sue emozioni e ad apprezzare la bellezza della vita con sua figlia, riuscendo ad avere una relazione più sana e appagante con lei.

Il materiale qui presentato è ispirato a fatti e personaggi legati all’attività clinica dell’autore che ne ha modificato i dettagli e ogni elemento che permettesse un riconoscimento a tutela e protezione della privacy dei pazienti. In ogni caso quanto riportato, per specificità della casistica esaminata e la non generalizzabilità delle indicazioni, non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di una valutazione medica personale.

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Ansia e allarme per tutto il giorno Gianna, un caso di Ansia Generalizzata

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Ansia tutto il giorno. Che fare? Un caso di Ansia Generalizzata

Ansia e allarme per tutto il giorno

Gianna, un caso di Ansia Generalizzata

“Ho 43 anni e lavoro in una piccola società informatica. E’ ormai da anni che soffro di ansia, palpitazioni cardiache, tremori, gola secca ed eccessiva preoccupazione per tutto quello che mi succede. Questo tipo di sensazioni sono presenti per la maggior parte del tempo della mia giornata. E’ come se stessi continuamente in allerta per…non so bene che cosa. Sono costantemente preoccupata per la salute di mia madre (che però a pensarci bene sta meglio di me). Penso poi che da un momento all’altro mi possa arrivare una telefonata che mi annunci un brutta notizia e di non essere all’altezza come mamma nei confronti dei miei due figli. A volte mi capita di dover lasciare il lavoro perché il mio malessere diventa intollerabile….ma ogni volta diventa sempre più difficile doversi inventare una scusa adeguata. A causa del mio nervosismo ultimamente ho poi fortemente ristretto i miei contatti sociali. Mio marito non mi capisce e questo causa continui litigi tra di noi, anche perchè tendo a nascondergli i miei sintomi e a cercare di apparire ai suoi occhi come “perfetta”. Fino a quando riuscirò a resistere?”

Gianna mi ha contattato tramite il mio sito e mi ha chiesto un incontro con il marito presso la Casa di Cura Le Betulle di Appiano Gentile (Co). La sua situazione è apparsa da subito molto compromessa sia per il livello di sofferenza soggettiva che ormai aveva sviluppato dopo tutti quegli anni di malattia sia per l’esasperazione del marito e della relazione coniugale che ormai pareva essere giunta agli sgoccioli. Inoltre Gianna nel tentativo disperato di gestire la situazione, sempre nell’idea di fare da sè e di non aggraviare ulteriormente la relazione con il marito, aveva avviato una auto terapia a  base di xanax sviluppando però velocemente una dipendenza. Quando ci siamo conosciuti era giunta a consumarne ormai un  flacone al giorno.

Di fronte ad  un quadro clinico di quel tipo fu necessario proporre a Gianna un ricovero per la doverosa disintossicazione per evitare che la sindrome di astinenza compromettesse le successive cure. Il ricovero la portò in breve tempo a perdere l’assuefazione ai farmaci e a rendersi completamente lucida e in grado di sostenere un lavoro psicologico su di sè. Questo lavoro venne poi continuato a Milano, in studio, con appuntamenti settimanali. La psicofarmaco terapia a base di paroxetina, un importante SSRI ad effetto ansiolitico, venne prolungata per un certo periodo per aiutarla a gestire meglio la sua quotidianità e permetterle di attendere al suo lavoro in ditta e alla sua psicoterapia senza subire il ‘richiamo’ dello xanax.

Il lavoro psicoterapico associato alla farmacoterapia hanno permesso alla paziente di riprendere una vita pseudo normale, di salvare il proprio matrimonio e di recuparere anche se parzialmente la propria vita sociale. Là dove la malattia aveva desertificato le sue relazioni imponendosi come unica compagnia, nei mesi si è progressivamente osservato un reinvestimento nella propria famiglia e la comparsa anche di nuovi interessi.

Solo dopo quasi tre anni di terapia integrata Gianna è stata in grado di ridurre il dosaggio di paroxetina e di giungere ad ammettere, prima di tutto a sè stessa, di non essere ‘perfetta’ come credeva ma non per questo di dover fare a meno dell’affetto di suo marito e della sua famiglia.

Il materiale qui presentato è ispirato a fatti e personaggi legati all’attività clinica dell’autore che ne ha modificato i dettagli e ogni elemento che permettesse un riconoscimento a tutela e protezione della privacy dei pazienti. In ogni caso quanto riportato, per specificità della casistica esaminata e la non generalizzabilità delle indicazioni, non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di una valutazione medica personale.
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Ho un pensiero fisso.

Maria, un caso di DOC Disturbo Ossessivo Compulsivo

Sono una casalinga di 55 anni, sposata con due figlie. La mia vita forse potrebbe essere, non dico soddisfacente, ma almeno passabile, se non ci fosse un problema che mi porto ormai avanti da diversi anni. Pur non avendo mai avuta nessuna prova certa, nella mia mente continuano a venire dei pensieri frequenti di tradimento da parte di mio marito. Per cercare di calmare la tensione provocata da questi pensieri, che spesso non se ne vogliono andare, mi ritrovo a lavarmi le mani tra le 30 e le 40 volte al giorno (ogni volta per almeno una decina di minuti). A volte tutto questo non basta per calmarmi e mi ritrovo a ripulire tutta la casa per 3-4 volte al giorno, senza nessuna reale necessità. Più di una volta ho cercato di combattere, in vari modi, questi meccanismi che ho appena descritto, ma non ci sono riuscita perché sono più forti di me. Non mi resta ormai che rassegnarmi.”

Il caso di Maria che mi ha contattato a Milano presso il mio studio, è un caso tipico: si è presentata con tutto il corteo classico del DOC e con le stigmate personologiche e relazionali (relative alla sua famiglia di origine) caratteritiche di questa condizione così invadente e invalidante la vita di una persona.

Svolta la fase preliminare di conoscenza della sua famiglia e completata la fase di diagnosi del DOC con l’intervista clinica e i test psicodiagnostici appositi, ho proposto a Maria una presa in carico della sua persona e della sua malattia e di avviare un percorso di cura che prevedesse un aproccio integrato di tipo psico-farmacologico. Maria, persona ormai matura e molto provata dalla sua malattia, accettò dopo aver voluto da me rassicurazioni sulla natura e uso dei farmaci che le avevo proposto di usare con lei.

La cura a base di fluvoxamina e di incontri di psicoterapia ad una seduta la settimana portò, già all’inizio del secondo mese, i primi risultati: Maria si sentiva più tranquilla, meno in allerta grazie all’azione ansiolitica del farmaco e in ultima analisi dichiarava di sentirsi più distaccata dai suoi pensieri ossessivi che, anche se non erano scomparsi, le permettevano di dedicarsi ad altro. Grazie alla psicoterapia, nel tempo, era riuscita ad aprirsi al proprio mondo interiore scoprendo che la sua paura ossessiva nasceva dalla propria insicurezza di base e di donna che per anni si era limitata a vivere all’ombra di un marito che, ignaro di tutto, le ricordava la figura ingombrante di suo padre. Con il susseguirsi del percorso nel giro di un anno di terapia Maria ha ristabilito con il marito una forma di dialogo “alla pari” che non era mai riuscita ad avviare e che le ha consentito di “mollare” definitivamente le sicurezze rappresentate dalle sue ossessioni e compulsioni, sintomi della sua vecchia condizione di malata.

Il materiale qui presentato è ispirato a fatti e personaggi legati all’attività clinica dell’autore che ne ha modificato i dettagli e ogni elemento che permettesse un riconoscimento a tutela e protezione della privacy dei pazienti. In ogni caso quanto riportato, per specificità della casistica esaminata e la non generalizzabilità delle indicazioni, non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di una valutazione medica personale.

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Ho tentato il suicidio.

Sonia, un caso di Disturbo Depressivo Maggiore

“Buonasera Dottore, sono una ragazza di 34 anni. Soffro di depressione da 3 anni e quando la situazione sembra risolta, sto bene per alcuni mesi… fino al verificarsi di una nuova crisi. Cado nel silenzio in quei momenti e ho voglia di morire …vorrei non svegliarmi più il giorno dopo, poi, con rassegnazione e disperazione mi sveglio e devo sopportare di vivere un’altra giornata. E’ come se facessi fatica a vivere. Sono infermiera e già una volta ho tentato il suicidio 2 anni fa circa, ma stupidamente non ho usato un farmaco abbastanza efficace e allora ero già in terapia psicologica. Vorrei tornare ad essere quella di prima e voglio sconfiggere questa malattia bastarda che mi sta consumando…ho però paura di non farcela. Ma i farmaci mi possono aiutare davvero?”

Sonia mi ha contattato perchè disperata da una condizione di depressione recidivante che tra un episodio e l’altro la stava portando a perdere la vita. Il ripetersi di crisi depressive configurava nel suo caso l’emergere di una diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore vero e proprio che per definizione avrebbe richiesto fin da subito, tre anni prima, un intervento farmacolgico da affiancare almeno al supporto psicologico che Sonia stava già ricevendo. Purtroppo la storia di Sonia di ritardo nella diagnosi o di sottovalutazione della gravità non è così rara,anzi. Una terapia precoce a base di antidepressivi avrebbe probabilmente risparmiato a Sonia e alla sua famiglia il calvario che invece hanno dovuto passare dopo il primo tentativo di suicidio.

Quando Sonia si è convinta a scrivermi, spinta dai genitori e da una sorella molto determinata, era sull’orlo di una nuova grave crisi con intenti e idee suicidarie molto chiare e definite. Memore della prima esperienza aveva già ideato e programmato come morire “di sicuro”, come mi disse lei stessa. Il ricovero in casa di cura, in un ambiente protetto e con adeguate cure intensive le permise progressivamente di spegnere l’angoscia di morte che ormai permeava completamente la sua mente non facendole trovare più nulla per cui vivere. La terapia a base di antidepressivi endovena e l’affiancamento psicoterapico e psico-rieducativo le hanno permesso, assieme all’affetto dei suoi cari, di recuperare nel giro di un mese e di poter essere dimessa con una terapia ormai stabilizzata e un equilibrio timico conclamato. Da allora Sonia si è affidata per il monitoraggio della farmacoterapia che ancora oggi segue come profilassi di un nuova ricaduta depressiva, assieme alla psicoterapia con la sua vecchia psicologa. Sonia pare in grado oggi di poter intravvedere un futuro diverso, non di morte.

Il materiale qui presentato è ispirato a fatti e personaggi legati all’attività clinica dell’autore che ne ha modificato i dettagli e ogni elemento che permettesse un riconoscimento a tutela e protezione della privacy dei pazienti. In ogni caso quanto riportato, per specificità della casistica esaminata e la non generalizzabilità delle indicazioni, non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di una valutazione medica personale.

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Paolo, un caso di Attacchi di Panico

“I miei primi attacchi di panico sono iniziati quando avevo diciotto anni. Ricordo ancora oggi quella cena tra amici durante la quale all’improvviso mi sentii molto male. Ebbi per la prima volta la sensazione di stare per morire, insieme a dei sintomi tipo il tremore, la sudorazione, le palpitazioni e la mancanza d’aria. Subito i miei amici mi portarono a casa e da quel periodo iniziò il mio tentativo, tramite molteplici consulenze specialistiche, di trovare un perché a questo apparente malessere inspiegabile. Col tempo, anche attraverso l’aiuto di diverse letture sono arrivato a capire che si trattava di D.A.P. Attualmente ho 30 anni, lavoro in una fabbrica molto vicina alla mia abitazione e mi sono anche sposato. Gli attacchi si sono ripetuti nel frattempo con scadenze medie di qualche mese l’uno dall’altro. Sono stato fortunato perché mia moglie é molto comprensiva, ma a tutt’oggi la mia vita risulta notevolmente vincolata da questo tipo di disturbo che mi crea notevoli difficoltà nell’allontanarmi da casa e nel sentirmi a mio agio con gli altri. Mia moglie è da alcuni mesi in stato di gravidanza e spero vivamente di non trasmettere al mio futuro figlio questa malattia.”

Il caso di Paolo mi ha molto colpito in quanto questo ragazzo viveva da anni in una condizione di ansia anticipatoria nel timore che da un momento all’altro un nuovo attacco potesse colpirlo. La sua qualità di vita si era drasticamente abbassata e con essa anche la qualità di vita della sua famiglia e ovviamente il rapporto con la moglie. Nel tentativo di migliorare la loro condizione questa giovane coppia aveva pensato di progettare e portare avanti una nuova gravidanza, ma questo tentativo di autoterapia come ebbe modo di dirmi Paolo stesso non funzionò. Di lui mi colpì subito la sua praticità, la sua pragmaticità e quasi totale assenza di un mentalità psicologica. Le cose parevano accadergli e basta.

Il mio intervento con Paolo si indirizzò subito, confermata la diagnosi clinica e testistica, verso la proposta di un intervento intensivo integrato presso il mio studio, sia per il gravoso stato in cui si trovava sia per la necessità di sostenere il ‘capofamiglia’ alla vigilia di una nuova nascita. La prescrizione di benzodiazepine per le prime tre settimane e di un farmaco appartenente alla categoria degli SSRI gli permise nel giro di un mesetto di poter apprezzare un primo livello di miglioramento stabile.

Con il tempo il quadro clinico migliorò ulteriormente e si stabbilizzò anche alla sospensione della terapia farmacologica con benzodiazepine. Solo però con un prolungato percorso psicoterapico ad una seduta alla settimana Paolo riusci a modificare, quel poco che bastava, quella sua struttura di base che rifuggiva ogni spiegazione psicologica e progressivamente imparò a conoscersi meglio sotto il punto di vista emozionale. Solo quando egli fu in grado di riconoscere adeuatamente le proprie emozioni e a dare loro il giusto valore, allora Paolo fu anche in grado di dispettere completamente i farmaci. Ci salutammo dopo due anni di psicoterapia.

Il materiale qui presentato è ispirato a fatti e personaggi legati all’attività clinica dell’autore che ne ha modificato i dettagli e ogni elemento che permettesse un riconoscimento a tutela e protezione della privacy dei pazienti. In ogni caso quanto riportato, per specificità della casistica esaminata e la non generalizzabilità delle indicazioni, non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di una valutazione medica personale.

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